Interview for the book "Fino alla fine del cinema" (Italy) about "The Big Plot". 2010.
Luca Barbeni: Quando hai deciso di utilizzare il web come palcoscenico?

Paolo Cirio: Recentemente il web è diventato il media più utilizzato, credo si possa affermare che ha superato tv, radio e stampa. Per chi come me ha iniziato con le BBS su un modem a 9.6kbs, questi tempi rappresentano la realizzazione di tutte le teorie di trasformazioni sociali che si prefiguravano con l'avvento d'internet. In alcuni casi le utopie futuristiche di quell'epoca sono diventate reali distopie, tuttavia, le caratteristiche del web sono rimaste intatte. Mi riferisco alla creazione democratizzata di contenuti e alla presenza simultanea in rete di comunità d'individui, i quali ipoteticamente, possono interagire con una partecipazione paritaria. Tali caratteristiche ritrovate nell'uso di massa d'internet come mezzo d'espressione personale, mi hanno portato a considerare il web come palcoscenico ideale in cui oggi la maggior parte delle persone inscena la propria esistenza.


LB: Quante persone sono state utilizzate per questa produzione e com'è stata organizzata?

PC: Io ho rivestito la figura del regista, inoltre ho curato direttamente il casting e la prima stesura della sceneggiatura e dei dialoghi. Gli attori principali sono stati quattro, più altri due per ruoli minori. Hanno lavorato per me tre editors, due americani e un italiano, i quali si sono occupati di revisionare tutti i testi e hanno tenuto aggiornate le piattaforme online. La produzione è stata in parte finanziata da un'istituzione tedesca di video arte (il Werkleitz di Halle).


LB: Che cosa pensi di un artista come Orson Welles come pensi che il suo lavoro possa essere relazionato al tuo? Trovo ci sia una forte analogia con il tentativo, riuscito, di Orson Welles di spaventare la popolazione tramite un annuncio radiofonico, con la fiction che invade la realtà, allo stesso, pur dichiarandosi esplicitamente come prodotto di fiction, The Big Plot intreccia narrazione e storie vere, account "marionetta" e personaggi realmente esistiti, video su Youtube e manifestazioni di Piazza.

PC: Sì, ci sono delle analogie, Orson Welles è stato il primo a mettere a nudo il potere dei mass media e soprattutto la loro influenza sulla percezione della realtà. Dopo di lui sono seguiti, i situazionisti, i prankers, e tanti altri, fino ad arrivare ad alcune opere di net-art. Se pur queste pratiche hanno influito molto sul mio lavoro, compresa quella di Welles, devo affermare che tutte quelle a mia conoscenza (e sono molte) sono state principalmente atti di sabotaggio dei media per rivelare alcune verità censurate, decostruire il linguaggio seducente, o semplicemente fare scherno della credulità delle persone comuni.

Con Recombinant Fiction voglio compiere il passo successivo, ossia costruire storie con diversi personaggi che dialogano attraverso vari media, e dove gli spettatori sono coinvolti nella fruizione interattiva e nella partecipazione all'opera, comunicando con i protagonisti o addirittura diventare tali e cambiare il corso degli eventi. Tale fiction permea i partecipanti consapevoli di esserlo, mentre chi non lo è, viene inevitabilmente immerso nel momento in cui la storia invade la loro realtà.

Personalmente intendo "fiction" quando c'è un intreccio fra personaggi, con diverse fasi di conflitto, risoluzione, e tutti gli elementi narrativi che si possono trovare in un romanzo o in un film. Queste caratteristiche distinguono il mio intento innovativo nella creazione di fiction cross-mediali.


LB: Che cosa pensi riguardo alla progressiva invasione dell'immagine nella realtà attraverso la moltiplicazione degli schermi?

PC: Non vedo solo la moltiplicazione degli schermi, ma con essa c'è anche un'esplosione di obiettivi. I personal media (per esempio gli smart phone o piattaforme come Facebook) oltre al consumo di contenuti, ci consentono di registrare la nostra vita e pubblicarla nel web in pochi secondi. Infatti, le nuove generazioni passano le giornate di fronte agli obiettivi delle webcam, dei loro cellulari o delle macchine fotografiche digitali.

Verrebbe da citare Boudrillard, dove la simulazione sugli schermi supera la realtà stessa, l'immagine diventa più reale del reale. Ora bisogna chiedersi, sociologicamente parlando, cosa consegue la produzione della propria Iper-realtà personale. Non solo percepiamo la realtà attraverso l'immagine, ma esperiamo la nostra esistenza attraverso le immagini che produciamo. In altre parole: ognuno di noi agisce sapendo di essere osservato da un pubblico, di conseguenza le nostre scelte sono sempre più condizionate dallo spettacolo che decidiamo di inscenare.


LB: La nostra realtà quotidiana è sempre più mediatizzata e "epicizzata", anche grazie a strumenti di personal advertising come alcuni social network, mentre la fiction si mimetizza utilizzando le piattaforme dei social network e a livello estetico insegue il mito del "real", cosa pensi a riguardo?

PC: Il bombardamento della pubblicità ha superato ogni frontiera, amplificando la nostra sensibilità mediatica, reagiamo di più agli stimoli dei mass media rispetto a quelli fisici e naturali, e i loro messaggi persuasivi hanno aumentato la nostra reattività alle sollecitazioni emotive. Inoltre, la mia generazione (e ancora di più quella successiva) è cresciuta fra migliaia di video giochi, telefilm, cartoni animati, e tanti altri formati di narrazioni, dandoci una duttilità nelle immedesimazioni e nella partecipazione in storie straordinaria.

Non voglio vedere tale contesto come opportunità, ma di certo vedo una necessità nell'operare con tali modalità per pratiche artistiche e politiche. Per riuscire a comunicare efficacemente e attuare cambiamenti sociali e culturali, bisogna usare un linguaggio adatto a un pubblico educato a codificare l'informazione con i codici dei mass media. Credo perciò che per ottenere degli effetti sul reale, sia necessario inventare nuove storie o infiltrare quelle esistenti, con nuovi personaggi e intrecci per coinvolgere il pubblico in una finzione (la realtà non interessa più a nessuno) e con essa attuare cambiamenti nella società.

Oggi la creazione di nuove identità e relative narrazioni è facilitata dai personal media, con i quali si possono produrre storie pervasive con strumenti alla portata di tutti. Per esempio, tramite un profilo di Facebook si possono coinvolgere potenzialmente milioni di persone, semplicemente pubblicando foto e video di un personaggio carismatico. Questo è possibile anche grazie al nascente entusiasmo nel partecipare con sconosciuti in storie condivise.

Inoltre, con l'interazione diretta con il personaggio, tramite i nostri personal media, viviamo una partecipazione di super-immedisimazione. Non solo i nuovi spettatori sono attivi nel ricomporre la storia, ma si sentono parte di essa, comunicando con i protagonisti e costruendo nuove trame narrative. Siamo oltre al cinema interattivo o ipertestuale, in questo caso la storia entra nella realtà più intima del pubblico, diventa parte della vita reale dello spettatore.

Data la tecnologia e la conseguente rivoluzione espressiva, ora si torna alla sfida della storia migliore.


LB: Le narrazioni interattive sono un viaggio picaresco pieno di aforismi, con pezzi di narrazione che non concludono mai, cosa pensi a riguardo?

PC: Vero, infatti, la parte più interessante durante la stesura di una storia non lineare e interattiva arriva quando si sfumano e si espandono i collegamenti temporali fra gli eventi e i personaggi. Per ottenere un risultato fluido ci vuole molta precisione nell'uso di allusioni, richiami indiretti, accenni e citazioni quasi metaforiche fra le congiunzioni delle varie parti della storia.

Nella produzione di The Big Plot c'erano problematiche intrinseche ad alcune piattaforme di self-publishing: usando tutte piattaforme proprietarie non c'era flessibilità. Per esempio è impossibile mantenere in vita un personaggio per sempre su Twitter o su Blogspot, essendo piattaforme con una timeline unidirezionale. Altre piattaforme come Youtube, si prestano meglio per narrazioni non lineari, ma in generale ci sono diverse complicazioni tecniche da considerare.

Tuttavia ho visto questi limiti come una sfida, la quale mi ha portato a ricostruire la storia non solo non lineare, ma anche multi piattaforma, ricercando un'astrazione poetica anche nei collegamenti fra le piattaforme, come fra Facebook e Youtube, e le varie tipologie di contenuti utilizzati come, fra foto, testo, video e interventi in spazi urbani in diverse città. Il pubblico non solo navigava fra i contenuti, ma fra spazi mediatici diversi, trasportato da collegamenti accennati, suggeriti con indizi suggestivi e pittoreschi.


LB: Nella tua esperienza personale quale tecnologia ha maggiormente influenzato il tuo linguaggio a livello estetico?

PC: La mia idea di tecnologia è una concezione alquanto ibrida. Per me non ha molta importanza la singola virtuosità tecnologica, ma la potenzialità della totalità delle tecnologie disponibili. Mentre tendo ad applicare estetiche adatte al singolo media senza ricercare il loro rovesciamento, preferisco farne parodia o uso strumentale per le mie narrative.


LB: Nella costruzione delle tue storie, da quali media ti senti più ispirato?

PC: Se pur provengo principalmente dalla net-art, m'interesso di cinema e di teatro di ricerca, soprattutto nei festival internazionali. Ho militato per anni nella street-art. Ho studiato geopolitica. Ho lavorato per molti anni in agenzie di pubblicità. Leggo molta teoria filosofica e politica. Sono abituato a iniettarmi un'overdose massiccia d'informazione, da molte agenzie di stampa, quotidiani, riviste, mailing lists e tanto altro. Da questo magma ho quotidiana ispirazione, credo che per questo ho inevitabilmente trovato il cross-media e il racconto di storie come forma migliore per esprimermi.


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